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 | IL PUNTO Del nuovo in politica  Giulio Angeli 
        «…a quelli della mia generazione i genitori hanno  lasciato qualche soldo in banca e magari una casa in cui vivere: ai nostri  figli, dopo aver lautamente mangiato, lasceremo il conto del ristorante da  pagare. Non mi pare un successo di cui vantarsi...». Matteo Renzi
 Chiacchierando della crisi…E’ assai più facile chiacchierare  della crisi piuttosto che analizzarla quale fenomeno  storico complesso: ciò implica conoscenze obiettive e metodo d’indagine, spirito  critico e autocritico, tenacia, volontà di confronto e, soprattutto, l’intento sincero  di superare gli attuali rapporti di produzione capitalistici.
 Tutte  cose faticose queste, non improvvisabili, talvolta indipendenti dalla volontà  dei singoli e che non portano voti, così come li portano le esternazioni a  effetto, le supponenze e le promesse della politica parlamentare che non  richiedono sforzi di immaginazione per essere recepite da un pubblico sempre  più passivo.
 Più o  meno consapevolmente “il nuovo in  politica” lavora in quest’ultima uni9laterale direzione omettendo, per  comodità, anche la solida consapevolezza borghese divenuta ingombrante  anch’essa e, al riguardo, De Gaulle ebbe modo di esprimersi con parole di  mirabile onestà che, citando a braccio, suonavano più o meno così: “non si possono mantenere le promesse  elettorali perché o si tradiscono gli elettori  o si tradisce il paese”.
 Le caratteristiche della crisi e “la crisi della politica” Senza  aver la pretesa di tracciare in questa sede analisi esaustive è comunque possibile  affermare, sia pure schematicamente, che quella che stiamo vivendo è una  classica crisi da “sovra produzione e da sotto consumo” (definizioni queste certamente  abusate, ma comunque abbastanza chiare almeno in tendenza) che si realizza in  un mondo capitalista che vede la ricchezza sociale prodotta concentrarsi sempre  più nei profitti e nelle rendite a scapito del salario reale e,  complessivamente, delle condizioni di vita delle classi subalterne. A questa  concentrazione segue l’accrescere a dismisura del capitale finanziario a  discapito del capitale di rischio e, quindi, degli investimenti produttivi. La  stessa borghesia  è stata progressivamente  travolta da quel “far soldi con i soldi”  che finisce per considerare la produzione di merci un male necessario, fenomeno  fisiologico al capitalismo, già previsto da Marx ne “Il capitale” oltre 150 anni fa e che oggi limita la borghesia  stessa nelle capacità di investimento produttivo e di programmazione, nel  quadro di un accresciuto conflitto imperialistico sui mercati internazionali,  determinato dall’ingresso di nuove potenze (BRICS).
 In questa situazione la borghesia ha perso,  almeno temporaneamente, la capacità di elaborare paradigmi economici e  culturali idonei a far fronte alle numerose sue contraddizioni e alle  insorgenti emergenze delle crisi.
 Da questo punto di vista anche le  suggestive tesi revisionistiche circa “le  capacità di adattamento dell’economia moderna” alle dinamiche delle crisi sono  state ripetutamente smentite dalla storia.
 La democrazia borghese,  nei suoi principi fondanti e nelle sue istituzioni, è chiaramente in affanno  rispetto ai processi di internazionalizzazione del capitale e alla sua  accresciuta aggressività nei confronti anche delle medesime tendenze riformiste  e collaborazioniste con le quali non intende più accordarsi, poiché ha estremo  bisogno di avere le mani libere per gestire i grandi processi di  ristrutturazione al fine di scaricarne i costi sul lavoro e sulle classi più  deboli e meno tutelate.
 Ma nel nostro paese c’è anche qualche  cosa in più: “la particolarità italiana” che, coniugata agli effetti della  crisi, ha prodotto quell’autonomizzazione della politica che ha finito per  aderire non già e non più a interessi di classe ma, soprattutto, a interessi  particolari di gruppo, di casta, di setta e di cosca. Ciò  ha reso strutturali quei fenomeni  degenerativi che negli altri paesi capitalistici pure si manifestano, ma a  livello fisiologico.
 La crisi della politica costituisce  il prodotto diretto della sopradetta degenerazione che non deve quindi essere  ricercata nei comportamenti degli individui e nelle migliori intenzioni dei  singoli esponenti politici per cui, sostituire questi con altri significa solo “cambiare  i suonatori  per lasciare inalterata la  musica”.
 Affermiamo quanto sopra senza avere  la pretesa di essere esaustivi, ma con la consapevolezza che una discussione seria  intorno alla presunta arretratezza del capitalismo italiano, soprattutto nella  sua storica interpretazione “meridionalista”, sarebbe urgentissima anche se dovrebbe  evolversi da ogni condizionamento “gramsciano” che implica l’identificazione tra industrialismo e capitalismo per cui, a poca  o nulla industrializzazione corrisponderebbero arretratezze precapitalistiche e  feudali. Così è stato che proprio in base a una concezione meridionalista,  industrialista  e “gramsciana” la sinistra parlamentare e il sindacalismo confederale  sono stati spinti a avvallare sostanzialmente i piani faraonici “dell’industrializzazione meridionale” che hanno condotto al disastro della “Cassa  per il mezzogiorno” e tra l’altro, all’attuale disastro dell’ILVA di  Taranto. Ma torniamo alle nostre riflessioni.
 Giovani e anziani: confondere le idee, annebbiare i  cervelli, dividere il movimento  Fino a quaranta anni fa era ancora possibile  ridistribuire ai figli e ai nipoti una parte della ricchezza sociale accumulata  in salari e pensioni, proprio perché veniva sottratta ai profitti e alle  rendite da una politica salariale e contrattuale più efficace e accorta nel  tutelare gli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne, perché lo  scontro sociale diffuso obbligava il sindacato a svolgere meglio il suo ruolo  di tutela.In  quegli anni le politiche sindacali in materia di salari e tutele, sotto la  spinta delle lotte operaie degli anni ’60, erano assai meno collaborazioniste  di quanto lo sarebbero state nel decennio successivo.
 La  svolta dell’EUR, maturata nel 1978, segna infatti il ritorno del sindacalismo  riformista sotto il rigido controllo dei partiti parlamentari. La spinta alla  collaborazione di classe si rinnova rafforzandosi con una nuova e unilaterale politica  dei sacrifici ispirata alla moderazione salariale e sindacale, al fine di  agevolare la ripresa della competitività delle merci italiane sui mercati  internazionali a spese esclusivamente del lavoro e senza scalfire profitti e  rendite, deprimendo così gli investimenti privati e accrescendo l’evasione  fiscale e contributiva per non inimicarsi la piccola e media borghesia.
 Se da una parte la politica non si  fa in base alle sole ipotesi c’è da dire, dall’altra, che le accresciute  difficoltà dell’Italia nel fronteggiare la crisi dipendono proprio dal fatto  che risorse ingentissime sono state sottratte agli investimenti e ai salari fin  dal secondo dopoguerra.
 Ciò ha prodotto uno squilibrio strutturale  concretatisi in una distribuzione della ricchezza che è andata ad alimentare la  rendita, i paradisi fiscali dell’evasione se non il crimine organizzato. A  quanto ammonterebbe oggi questa ricchezza, la cui evaporazione è stata  tollerata e agevolata dalle innumerevoli compagini governative fin qua  succedutisi? Quale uso se ne poteva fare? Lo vogliamo fare il calcolo  quantitativo e qualitativo computando anche i danni e i costi conseguenti ai  mancati investimenti? Sono queste le domande alle quali sarebbe il caso di  rispondere, anziché scagliarsi contro “il privilegio” dei contratti nazionali  di lavoro, dei diritti e delle tutele.
 E non parliamo  tanto dell’attuale governo, quanto di cospicue maggioranze dello schieramento  di centrosinistra e dei gruppi dirigenti del sindacalismo confederale  CGIL-CISL-UIL.
 In politica, per essere credibili,  dobbiamo, alla fine, dimostrare di essere contro qualcosa e a favore di  qualcos’altro con la chiarezza delle strategie e dei programmi, al fine di  individuare un concreto interlocutore sociale con il quale, e per il quale,  procedere nella direzione del cambiamento, secondo i principi della buona  politica che non può che partire dalla difesa degli interessi immediati dei  lavoratori e delle classi subalterne.
 Noi,  per esempio, siamo a favore dei lavoratori e contro il capitalismo, perché  crediamo che gli interessi immediati e storici dei lavoratori e delle classi  subalterne non siano conciliabili con le finalità del capitalismo medesimo. Il  Partito Democratico, per esempio, non è contro il capitalismo sia pure con  innumerevoli distinguo e qualche fisiologica eccezione. Casomai, sarà contro i  suoi principali guasti, così come lo sono stati in tanti nel corso della  storia, sia pure con risultati alterni, che non hanno scongiurato ben due  conflitti mondiali.
 Eminentissimi  riformatori, politici e economisti che hanno ritenuto quello capitalistico “il migliore dei mondi possibile”, hanno  speso le loro intelligenze per elaborare teorie e sostenere prassi volte al  fine di contenere gli eccessi dello sviluppo capitalistico nel senso  dell’interesse generale del capitalismo medesimo e del suo prosieguo, anche se  ciò ha significato, talvolta,  “andare contro” gli interessi del  singolo capitalista.
 Oggi,  molto più sbrigativamente, per ritagliarsi un ruolo e una visibilità, si crea  una “guerra tra poveri” capace di catalizzare  l’attenzione dell’elettorato potenziale e che consiste, ancora, nella scelta di  contrapporre gli anziani ai giovani il cui futuro sarebbe espropriato dai  privilegi dei primi.         La scelta è cinica  ma intelligente per i margini di manovra che apre in una situazione  conservatrice come quella italiana, ed è inoltre in grado di intercettare, sia  pure strumentalizzandola, una richiesta socialmente trasversale di rinnovamento,  dato che proviene da ogni ambito della società: da qui la “rottamazione”, quale conseguenza operativa d’impatto.  La posizione è comunque effimera poiché  ispirata ai solidi principi del neoliberismo e destinata a andare a braccetto  con le esternazioni del ministro Fornero che intende ristrutturare il lavoro a  spese del lavoro, secondo le regole ferree della ristrutturazione  capitalistica.
 Il gatto di Keynes  Il “nuovismo”, che  vesta i panni dei giovani o dei vecchi, è un prodotto avariato della politica  borghese che, come ogni altro fenomeno, deve essere posto in relazione alla  fase che stiamo vivendo.In un qualunque contesto, anche eccezionalmente  complesso, gli individui, anche singolarmente, possono giocare ruoli  determinanti così come la storia del mondo dimostra: ma essi stessi sono il  prodotto di ciò che hanno alle spalle e, inevitabilmente, si trovano inseriti  in un contesto che li ha prodotti, che loro non hanno scelto e che, comunque,  li condiziona. La mala politica è, e resta, una conseguenza della società  capitalistica e delle sue diffuse incapacità a risolvere le numerose e  accresciute contraddizioni che il meccanismo dell’accumulazione dei profitti  determina inesorabilmente.
 Quello  capitalistico è un sistema non riformabile perché marcio dalle fondamenta, e  anche la politica che produce ammarcisce, inevitabilmente contaminando anche  gli onesti che vengono travolti, divenendo essi stessi componenti attivi della  degenerazione, così come accade in ogni sistema risultante.
 In questo contesto “il  giovanilismo e il nuovismo” non è la garanzia contro la degenerazione della  politica, visto che alle spalle non ha analisi ma supponenze e che necessita di  trucchi, di spettacolarità, di culto della personalità e di espedienti per  affermarsi al fine di surrogare la sua inconsistenza, proprio come la vecchia  politica che ha dominato fino a oggi.
 “(Egli) …non  ama il gatto, ma i cuccioli del gatto, anzi i cuccioli dei cuccioli del gatto e  così fino alla fine della specie dei gatti”.
 Con queste parole, che  risalgono al 1930, J. M. Keynes intese stigmatizzare il comportamento e le  finalità del capitalista che accumula denaro con il quale fare altro denaro  che, per altro, è una figura estremamente attuale, che Keynes riteneva di poter  controllare con le sue teorie almeno in parte.
 Crediamo che queste parole espresse da un economista  borghese ritenuto, a torto o a ragione “il  salvatore del capitalismo” e che, ritenendo il capitalismo riformabile, aveva  comunque a cuore le sorti del mondo, possano ben esprimere il ciclo, lo stato  dell’arte e le finalità della politica parlamentare nel replicare tutti i suoi  avariati, inadeguati e autoreferenziali contesti, vecchi o giovani che siano.
 
 dicembre 2012
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